Le Apuane… a occhi aperti!
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Le Apuane… a occhi aperti! 

Ogni volta mi riprometto di tacere per un po’, ma le uscite Barbasse sono troppo coinvolgenti e la tastiera scalpita.
Eccomi di nuovo, dunque, a tessere i ricordi di un’uscita “classica” per PassoBrbasso Toscana; ogni anno, oramai, l’appuntamento con le Apuane si rinnova. Chi scrive le aveva sempre scrutate, come un olimpo misterioso e fosco, passando sul filo della sottostante riviera, dall’auto o dal treno. Metterci piede è stata quasi un’iniziazione sull’onda delle malie della sagace accompagnatrice e dello spirito dell’eclettico e frizzante gruppo. Dopo una ricca e briosa riunione del Consiglio Direttivo a Scandicci, la due giorni è stata una piacevole prosecuzione, a cui hanno aderito Barbassi da ogni dove.

Un luogo inedito in parte ci ricorda quanto abbiamo già visto, in parte ci appare in tutta la sua unicità. Camminando in questo spazio un pò fiabesco, spesso immerso nella nebbia che dal mare si addensa, dove la natura conserva un che di rude e selvaggio, ho percepito come una forza indomita e primordiale che preme ed evapora dall’intero paesaggio e dalla profondità del terreno.

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Antica dimora di popoli coraggiosi e fieri, il luogo non ha perso l’originario tenore.
La superficie ricoperta di boschi e prati non tradisce la massiccia anima.
Nomem omen, l’attributo di Alpi svela la duplice natura: la nobile parentela con le sorelle del Nord e la fratellanza con i più miti e dolci Appennini, come certi miti ricordano.
L’aspetto è aspro e selvatico, ma la superficie è insistentemente solcata dalla bramosia umana come un volto inciso dal severo transitare del tempo; questi rilievi mi hanno evocato una vaga somiglianza col Gulliver di Jonathan Swift legato a terra e circondato dai piccoli Lillipuziani indaffarati su di lui, illusi di poter dominare il gigante. All’eroe del romanzo è sufficiente destarsi per tornare libero.

Le Apuane ancora non si destano, ancora non è tempo per loro di scrollarsi via di dosso le risibili e ingenue velleità dell’uomo che da secoli si affanna a estrarre la pregiata roccia.
Il visitatore è continuamente attratto/distratto dal candore degli squarci, dei terrazzamenti e dei dedali di strade. Macchinari e attrezzature sono diventati, da tempo, parte integrante dell’ambiente, attributi artificiali e contemporanei della flora e della fauna di questo territorio.
L’anima e le immacolate interiora delle montagne sono continuamente messe a nudo, portate in superficie. Profili e sommità sono stati trasformati, erosi dall’azione dell’uomo.
La montagna non ha sangue nelle vene ma marmo niveo, duro e compatto, non si arrende, resiste e continua a conservare – paradossalmente - un’intrigante bellezza anche là dove è stata profondamente assalita: le cave portano fuori lo splendore dell’interno e il bianco riverbera e riempie lo sguardo. Quel candore non è soffice neve ma l’opera dell’uomo che scava.

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Il nitore si fa luce e s’irradia. Difronte alle enormi cave bianche mi sento quasi a disagio: il colore mi abbaglia e avvolge, un senso di devozione mi assale come se fossi in luogo sacro davanti a un Cristo morto tra le braccia di sua madre. La forza del marmo mi sovrasta, mi schiaccia: percepisco la potenza di questa natura violata e incompresa. Questo nitore bisbiglia: mi parla di come la montagna sia delicata e fragile, di come possiamo facilmente defraudarla delle sue virtù più profonde.

Il resto è banale cronaca dei nostri giorni, quasi retorica e già troppe volte vissuta. Un labirinto di interessi e questioni che non sfocia in nessuna concreta decisione o inversione di rotta, un ente Parco che non tutela la sua area, la devastazione che si moltiplica e l'incertezza che rischia di coinvolgere anche coloro che da qui traggono sostentamento e l’intero indotto. In una regione che ha fatto della bellezza del paesaggio il suo emblema.

Anche da qui, giunge un richiamo al fatto che l’azione tecnica e lo sfruttamento comportano dei costi spesso non reintegrabili e irreversibili. Anche da qui ci si accorge che il territorio una volta alterato non può essere restaurato: non basta ripiantare un albero divelto, magari non ricresce perché il suo habitat è stato corrotto inesorabilmente. L’ambiente è un bene supremo (sommo direbbe, forse, Immanuel Kant?). La distruzione è così rapida e prepotente ai danni di formazioni che sono maturate con la calma dell’eternità.
Nutrire speranze di cambiamento è arduo come non accorgersi della situazione. Tra questi due estremi in tensione, forse esiste un sentiero stretto e impegnativo che punta a evitare l’indifferenza.
A fine escursione scendere a valle e prendere un treno che, più o meno velocemente, mi avrebbe riportato tra le quattro mura di casa dove le finestre affacciano su una strada anonima da cui nessuna montagna è visibile, sarebbe stato un vero sollievo e soprattutto molto comodo. Però camminare serve anche a non dimenticare…

Tutto questo ha aleggiato sui nostri passi e sui i nostri pensieri, sollecitati continuamente da quanto si manifestava dinanzi.

Patrizia C. - Foto di Laura R.

 


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